sabato 7 novembre 2009

LA STRADA di Cormac McCarthy, recensione


...Inizierò con l’affermare che il primo senso investito dalla lettura è quello dell’olfatto. Sin dalle prime righe si percepisce l’odore, la puzza dei corpi non lavati, del sudore, del sangue rappreso, dei capelli unti e sporchi; l’odore acre del fuoco e in generale della mancanza d’acqua. Penso alle nostre abluzioni, alle nostre docce, all’uso indiscriminato e sprecone dell’elemento, la cui assenza, in questa visione apocalittica si manifesta. L’inizio, un incubo da sogno cupo, ci rimanda a Lascaux all’ideogramma stilizzato di un essere, che celebra la fine del trionfo animale, dei cavalli e dei bufali, imponendo la sua presenza di Uomo nella Natura. Cormac Mc Carthy ci disegna un uomo solo, che in una grotta scura maleodorante osserva un lago nero e fetido, abitato da presenze inquietanti.
L’uomo e il figlio, “l’uno e il mondo dell’altro”; l’antico mondo e la speranza forte e tenera che tutto, forse, alla fine può avere un senso, o ancora una possibilità. L’uomo è “papà” solo per il figlio e, a lui solo a lui, non a noi lettori, disperatamente, promette un dono, una certezza che si può raggiungere solo dolorosamente, attraverso il ripercorrere la strada delle “allucinate litanie”.
Le incredibili organizzazioni del male che l’uomo si è dato nel corso dei secoli nel nome, e noi lo sappiamo, della fede e del potere. E lo scorrere delle immagini ci riporta ai roghi, vengono in mente Monte Segur, le crocifissioni, gli stermini, le torture, le morti atroci organizzate e pianificate, gli impalati della Drina, la descrizione di Ivo Andric. E’ un susseguirsi di nefandezze viste da due sensibilità, quella dell’uomo e del figlio. “Che differenza c’è fra ciò che non sarà mai e ciò che non è mai stato?” Una diversa percezione del Nulla, un vuoto che l’uomo teme e che invece il figlio dimostra di preferire al ricordo”.
In questo libro si parla di Dio e il dono promesso, che si attua solo dopo la morte, la rinuncia, dell’uomo antico, il padre, è un nuovo pensiero su dio; non una religione, ma un sentimento armonico, materno, forse una riconsiderazione spirituale della Natura.

Non so agli altri lettori, quali immagini abbia evocato la figura del figlio, nella mia mente, precisa e costantemente a fuoco, ho avuto quella di David, il bambino androide di Intelligenze artificiali, di Spielberg. Il bambino non umano, per secoli seduto, nello stesso immutato incanto di stupore, davanti ad un disgregarsi di un immagine “patacca”, fittizia, che lui, con fede umana, riveste di valore e che solo, altre intelligenze artificiali sapranno in qualche modo premiare.
Il Figlio di questo romanzo, è un po’ come David, è un figlio dei tempi, concepito più dalla volontà che dalla naturalità; nel romanzo, la mamma abbandona l’impresa e lui, solo con il padre, sembra rappresentare la speranza, la ragione stessa dell’esistenza del “resto” umano, il padre, che in lui riconosce il suo ultimo atto: l’uomo è responsabile della Vita. Tutta la vita, la propria, quella del figlio, degli animali e del mondo.
La fiducia del figlio, il senso di serenità, il suo abbandonarsi al padre, regalano all’Uomo l’occasione del riscatto della specie. Così mentre immagini orrende, morti e distruzioni, si susseguono e si alternano in un continuo e senza fine succedere, è vivo fra loro, puro e cristallino, il dialogo. L’uomo rassicura il piccolo, lo protegge, ma non gli nasconde il male; e in questo gioco, che è lezione, il piccolo conquista una sua, anche se acerba, maturazione, che alla fine del viaggio si manifesta con una diversa volontà. Sarà solo allora che l’Uomo si ritrae, consapevole d’essere parte stessa, del “freddo glaucoma” di cenere e di morte che copre il pianeta e la vita tutta. Forse, un’autocritica dell’autore, uomo del “mondo morente, ” per la condivisione, o la sottovalutazione o l’indifferenza o il non mai abbastanza dissenso espresso per quel processo d’irrevocabilità, a cui, noi tutti, abbiamo condannato la terra.”
(...)

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