lunedì 27 dicembre 2010

ANNUNCIAZIONE, CALUNNIA, DISPUTA; DA VINCI, BOTTICELLI, CARPACCIO


LO SFONDO MANIFESTO di miriam ravasio
L’Annunciazione, La Calunnia, La Disputa di Santo Stefano. Leonardo da Vinci (1472-1475), Sandro Botticelli (1496), Vittore Carpaccio (1514).
L’Angelo annuncia a Maria il concepimento, il punto di fuga è una separazione fra un allineamento d’insiemi ( 3-4-3) e una disposizione spaziale. Il bagliore bianco da cui, sinuoso, si snoda il paesaggio marino lega l’attenzione al vero elemento di primo piano, un rilievo marmoreo con festone di foglie di mais(?) e un’ostrica aperta: la perla, essere magico sospeso fra mondo animale e minerale. Il lungo e sproporzionato braccio di Maria punta sulla traiettoria. Nella Calunnia, il principe con le orecchie d’asino, blandito dal Sospetto e dalla Paura, dà udienza al Furore Parabolano della Calunnia e delle sue ancelle Frode e Invidia; la figura cupa e nera della Morte aspetta paziente il Calunniato, già steso, al centro della scena, come un Cristo deposto. Discosta e nuda, la Verità indica l’alto soffitto della costruzione, ricco di nicchie e figure misteriche, uno sfondo cui non è aggiunto altro oltre l’irraggiungibile azzurro. Una disputa è il soggetto dell’opera di Vittore Carpacci; un libro aperto per le figure di primo piano e pagine chiuse per lo sfondo in cui si riconoscono i profili degli alberi e le costruzioni composte con oculata cura. Al centro prospettico, il profilo di un monte e un cipresso

LORENZO LOTTO, I TRE SANTI


FRATELLANZA di miriam ravasio

1535 (forse 1532) olio su tela, 275 x 232 cm.
Tre santi iscritti in un triangolo isoscele, dove l’altezza è un’eccezione pitagorica; San Cristoforo, il gigante sostiene le rette che prolungano i cateti, il Dato e la Testimonianza. San Rocco indica l’arto “valido” e san Sebastiano espone la sua bellezza al sacrificio. Giallo zolfo e un libero vermiglio avvolgono la forza che avanza sospinta dalla sua stessa energia, il bastone grezzo dei boschi, impugnato come un remo è simbolo del gesto, che può ripetersi all’infinito, fra una chiara pertica levigata e una trave scura. La firma è in basso, al centro: un serpentello avvolto in un cartiglio siglato da un occhio e dal nome, Lorenzo Lotto.
(titolo “I santi Cristoforo, Rocco e Sebastiano. Loreto, Santuario della Santa Casa)

mercoledì 1 dicembre 2010

LA CARTA E IL TERRITORIO, recensione di Miriam Ravasio


LA CARTA E IL TERRITORIO
Di Michel Houellebecq, recensione


“Damien Hirst e Jeff Koon si spartiscono il mercato dell’arte” putrescente e scemo.
Fra le dissennatezze dell’umano c’è l’aver spogliato la pittura dal suo immaginario misterico, e un’arte senza luce è impudica, trasforma l’artista in businessman e il mecenate in maniaco (collezionista).
Tema centrale del romanzo è la pittura nel suo rapporto con il consenso; l’artista coccolato e vezzeggiato dai sistemi, esprime un sé sempre più povero, quasi misero. Alla potenza evocativa si è contrapposto, nel tempo, il clamore dell’effetto; l’artista moderno fa per sé, privo di committenze e
Incarichi, che investono abilità e sensibilità, per opere da iscrivere in progetto universale, egli è solo.
Lavora, duramente e si applica con ostinazione, per la produzione “originale” di un pensiero relativo, che press-agent, humus per le aste, stigmatizzano nell’enfasi situazionista degli eventi.
Fin dalle prime pagine, l’autore afferma e lancia il suo appello, velando in una citazione la metafora della Fratellanza, ormai avulsa nell’insieme da Liberté et Egalité, come i personaggi di un “opera minore” di Lorenzo Lotto “ciascuno di loro evitava lo sguardo degli altri due”. Conseguentemente, “le penseur” a capo chino osserva le sue parti velando gli occhi alla luce, mentre alle sue spalle “la Porte de l’Enfer” sigilla il Museo delle Arti Decorative di Parigi. Tuttavia, “l’era dei polimeri e delle plastiche, ancora recente non ha avuto il tempo di produrre una reale trasformazione mentale. Il nascente millennio, dopo varie oscillazioni la cui ampiezza non era mai stata del resto molto grande, tornava all’adorazione di un tipo semplice, sperimentato: bellezza espressa nella pienezza delle forme nella donna, nella potenza fisica nell’uomo”. Nel vasto territorio delle cattedrali, mettersi all’opera, forse è ancora possibile e alla base, non una croce ma il Nastro di Moebius; una sola superficie e due possibilità, un giro per ritrovarsi dalla parte opposta, due per tornare all’origine. Due in uno.
Houellebecq si espone, con gaia vivacità, sdoppiandosi nei protagonisti: lui stesso, intellettuale di Francia, autore dall’indiscusso successo internazionale (mecenate involontario) è il referente dell’opera. Jed Martin, l’elemento di rottura, è un artista visivo (fotografo e pittore) dalla formazione romantica; ha studiato e/o conosce Platone, Eschilo, Sofocle, Racine, Molière, Hugo, Balzac, Dickens, Flaubert, i romantici tedeschi, i romanzieri russi.
Sulle tensioni del loro agire e pensare nei confronti dell’opera, si svolge la trama, gli altri personaggi e la presenza di Jed nei loro contesti compongono scene minori, mentre i titoli (tutti!) delle opere, dei quadri, delle fotografie e delle mostre (soprattutto) separano ed evidenziano le quattro parti principali.
LA CARTA E’ PIU’ IMPORTANTE DEL TERRITORIO, segna la separazione fra l’arte e l’artista; il rimpicciolimento dell’esistenza tutta in una scala ridottissima. Posizionata a Nord la carta racconta la vita, gli insediamenti svelano l’età delle case, le prime lungo le vie di comunicazione, i fiumi, gli agglomerati attorno alle ferrovie, arrivi e partenze, le asprezze dei percorsi, gli sprechi e gli abusi. La carta racconta più di ogni museo o rievocazione.
I MESTIERI SEMPLICI, congiunzione della fotografia e della pittura al passato dei luoghi. La conclusione cui era giunto Jed: la carta evocava il passato ma nelle nuove realtà del territorio il gusto estetico era vintage, poneva dopo il successo della mostra altri interrogativi “la produzione di rappresentazioni del mondo è inutile, toglie all’arte il suo ruolo”
PROFESSIONI IN DECLINO, la perdita della materia.
In un dialogo sincero quanto inaspettato, l’anziano padre morente, noto e celebrato architetto confessa al figlio l’incapacità della corporazione di contrastare Le Corbusier: uno spirito totalitario e brutale, animato da un gusto intenso per la bruttezza, ma è stata la sua visione del mondo a prevalere durante il XX secolo. Il funzionalismo produttivista della bellezza, rivelava l’arte mortale degli uomini, il potere, per tutti gli uomini del mondo.
COMPOSIZIONI D’IMPRESA, fissazione dei principi per l’artista; le imprese dell’arte vanno distrutte e la conoscenza sovvertita.
I grandi maestri del Rinascimento trasformando le loro botteghe in imprese decretarono la morte dell’arte stessa, stabilendo il confine fra concezione ed esecuzione, fra arte e artigianato. Leonardo da Vinci e Damien Hirts sono simili, entrambi hanno perso il contatto con la spiritualità a favore di una realtà commerciale e d’impresa. “Stava veramente facendo un quadro di merda. Prese una spatola, squarciò l’occhio di Damien Hirts e allargò il buco con sforzo”.
Nell’epilogo, Houellebecq (intellettuale di fama)e Jed Martin (pittore quotato) muoiono; il primo distrutto da una cupidigia malata e l’altro svanendo in un trionfo della vegetazione che non può essere che totale: nella Natura.
L’artista è un sottomesso a messaggi misteriosi …

Miriam Ravasio

martedì 23 novembre 2010

ASSIOTEA di Adriano Petta, recensione di Miriam Ravasio


“ Mamma, io credo che il nostro pensiero sia la parola dell’anima, dello spirito, di quella parte di noi che appartiene solo e soltanto a noi”
Assiotea, ultimo romanzo storico di Adriano Petta è una storia di schiavi, di potere, di pensiero e d’amore. Una ricostruzione appassionata e appassionante dei tempi in cui visse la sua breve vita, la piccola Assiotea, nell’Ellade 350 A.C. Come nel giallo di Agatha Christie, misteriose statuine segnano l’intreccio dei fatti e delle azioni; non di porcellana, ma scolpite secoli e secoli addietro nell’oricalco, una roccia durissima fra il colore del bronzo e dell’oro. Sono segnaposti di una civiltà sommersa, Atlantide e hanno il volto di Assiotea “la dea giusta, degna”, colei che libererà. La profezia anima il cuore degli schiavi, uomini, donne e bambini, esseri che la natura, codificata dal pensiero degli uomini dell’Accademia di Platone e Aristotele, destina all’inferiorità.
“La vita è un insieme di atti” e di quel che ne consegue; la donna è inferiore all’uomo perché uno scarto della Natura e la testimonianza di uno schiavo non è valida se non è ottenuta con la tortura.
Così, nell’anno dell’arconte, nell’undicesimo giorno di ecatombeone, inizia la storia della piccola senza fionda che non sconfisse il suo Golia. Personaggi e fatti sono reali, tranne “La casa del cielo” e la sua ubicazione, proiezione allegorica del pensiero di Leucippo, tutto è realmente esistito, e come precisa l’autore, le fonti sono documentate.
Reali e veri sono Lastenia etera di Speusippo, Eudosso di Cnido, la misteriosa Mappa delle miniere d’oro, Coridemo, Focione, Iperide, Demostene, le triremi religiose Ammono e Paralo, la libreria dell’Agorà e Assiotea che frequentò l’Accademia Platonica vestita da uomo.


“Platone; tu non sei il più grande filosofo ma il più potente”.
Filosofa per necessità e intuizione, più che per conoscenza. Assiotea non è sapiente come Ipazia, la scienziata alessandrina vissuta e uccisa dai parabolani 1000 anni dopo. La sua figura è più incerta, una freccia d’amore contro gli inferni del dominio, ma i suoi mezzi sono poveri. Ragazza già violentata e brutalizzata, venduta come schiava e marchiata secondo gli usi, conosce ciò che è esclusivo a pochi, per aver “piratato” ( oggi diremmo così) fra i testi che diligentemente copiava nel suo lavoro di famiglia, il padre commerciava i preziosi libri copiati dalla moglie. Gli atomi, l’atomo è un’idea, risvegliano in lei le intuizioni sulle origini e da sola s’inizia alla conoscenza e all’amore per l’universo TUTTO. Perché il pensiero non si corrompa e tutti gli esseri siano liberi e degni di una vita vera.
“Se al vostro posto ci fossero stati Antifone, Antistene, Diogene, Aistippo, Leucippo e Democrito…il mondo sarebbe sicuramente diverso”
Emergono, pagina dopo pagina, segreti, intrighi, strategie; filosofi assassinati e assassini e quegli osservatori arguti, che testimoniarono la ripugnanza interpretandola, per discernere la curiosità dallo sbigottimento: così spiega Diogene, soprannominato “lo scopazzo di masturbia”.
Allo storico il lavoro, ai lettori il volto empio di Platone e della sua potenza. E amore, immenso, che ricompensa gli spiriti liberi e sofferti delle donne, care e preziose sorelle di luce: Assiotea, colei che libera.

Miriam Ravasio

Il cosiddetto "Parnaso" di Andrea Mantegna, lettura esoterica


(tempera su tela, 150 x 192 cm 1497)

L’ARTE COLPISCE CON AMORE
Il segreto dell’Armonia è nella Bellezza; Intelligenza, Forza, Tecnica e Astuzia sono ai lati a garanzia della Danza. Curiosa questa costruzione dell’allegoria di Isabella d’Este (Venere) e di Francesco Gonzaga (Marte). Un arco di fango secco sostiene come un trionfo il peso di un talamo e di una coppia; lui è bardato e armato, anche pronto ad andarsene, se lei non cede la freccia d’oro dell’Amore che, con silenziosa indifferenza, sembra voler nascondere dietro il corpo nudo. Nudo è anche Vulcano che sta per essere colpito, da Cupido, nella sua doppia intimità: il fisico e il mito. Sul tetto della caverna, il calore della fucina si materializza in una macchia plastica e argillosa:mani grezze, pollice e dita tese, sfregano un blocco monco. La Festa, soggetto importante del dipinto, distoglie e piedi leggeri colorano di muffa il piano sterrato, una piccola tartaruga scura osserva immobile, la crepa alla base dell’opera.

Miriam Ravasio

lunedì 11 ottobre 2010

Durer-Lotto-Lomazzo lettura esoterica di miriam ravasio


QUEL CHE RESTA E' VIVO NELL'ARTE
1499. Nel ritratto di Oswolt Krel , Albrecth Durer fissa nello sguardo l’attenzione a ciò che sta scomparendo, quel concetto di morte e di resurrezione che caratterizza il mondo naturale; l’immagine della selva sta per essere chiusa dal fondale rosso, che per quattro quinti chiude la scena. La pelliccia dell’abito evoca lo spirito primordiale dell’homo silvaticus. 1505. Al centro dell’Allegoria del vizio e della virtù, Lorenzo Lotto, pone un tronco morto, da cui spunta un vigoroso germoglio, alla destra un satiro laido e a sinistra un bimbo intento ad ordinare delle forme, sopra di lui, non un cielo tempestoso (come da più parti ho letto) ma un bozzolo di luce chiara che si espande tutta attorno. L’opera rappresenta il tempo passato presente e futuro, o la condizione dell’uomo che negandosi alla luce non può che ripiegarsi su ciò che possiede? 1592. Autoritratto di Giovanni Paolo Lomazzo, pittore e trattatista e grande conoscitore di Leonardo da Vinci. Il fondo è scuro , solo il viso e le mani portano luce ad un’azione, che possiamo immaginare come compiuta; le forbici hanno tagliato la tela…

LA TERRA CHE CAMMINA di Miriam Ravasio


Il Mondo: una palla su due gambe

Nell’arte, quel che è simile è diverso
Gli elementi figurativi di queste opere sono gli stessi, un globo e una figura umana, il senso, il messaggio e la comunicazione cui sottendono sono diversi; esprimono il “mutato” rapporto fra Uomo e Natura. Nella stampa di Martin Van Heemskercck ( 1572) accanto alla figura con l’infante al seno c’è il globo terrestre “ornato” dagli strumenti dell’Uomo; nell’Atalanta Fugiens di Michael Maier del 1618, la figura diventa “Terra” che nutre il poppante, una madre che avanza sicura incurante delle figure poste ai suoi piedi; nella recente opera di William Kentridge del 2007, L’inesorabile avanzata, gli strumenti dell’Uomo sono diventati creatura, un globo meccanico avanza in uno spazio di morte. Ma l’Uomo c’è e sta guardando l’opera, siamo noi.

LEGAMI D'AMORE, recensione a cura di Miriam Ravasio


“Dal fiume al mare. Dalla melma al sale.”
Il titolo da soap non inganna. Nel romanzo di Maria Rosa Nuvoletta c’è una guerra senza pace; spietata, talebana che azzera tempo, spazio, emozioni per gli “esseri” nati e compiuti nelle famiglie di camorra. Dove si agisce in funzione di un proprio convincimento di una propria convenienza e prospettiva, gerarchie per cui il Male è un Bene apparente. Uno stato di Natura riconosciuto e alimentato dal seme della violenza “che si era diffusa rimanendo intatta nel tempo e perfezionandosi. Come una religione.” Una condizione illiberale, prevaricante, malfattrice che muove allo sfondamento dello stato civile.
Vito e Barbara Cortese sono in fuga dal fango, quello dell’Arno che aveva sommerso la città e mangiata l’attività di famiglia e il fango di Napoli, che mese dopo mese li risucchiava dal macrocosmo di speranze e libertà, è il 1968. Cedere al diritto di governare se stessi, per riconoscerne uno comune e superiore, l’ordinamento di una famiglia di CA-MOR-RA. Le pagine scorrono a zoom , occhi che osservano questo “loro” mondo alla ricerca dell’appartenenza ad una famiglia che non vive legami d’amore ma di sistema. Quando la consapevolezza è riconosciuta, l’imperativo è la distinzione, essere diversi . “Come faccio a respirare, a guardare il mare, a sentire gli odori senza avvertirne il fetore, a mangiare senza provare disgusto, ad amare senza detestare …a sorridere senza lasciar scorrere il pianto? Come si riscatta tutto questo?”
Disconoscere, e l’autrice individua l’elemento di rottura in una corporeità negata; stretta e fredda come il sesso di Barbara, mite e sussurrata in Vito o muta come Sonia, l’orfana, aggiunta per amore. Personaggio chiave, che ricorda Sonja Rostov di Guerra e Pace, nella famiglia ma estranea; entrambe determinanti, presenti, attente, capaci e ricche dell’amore più grande: quello che si dona.
Lettura vivida, coinvolgente dove il tratteggio dell’ambiente camorristico-mafioso, narrato in libri, film e fiction, qui è solo un filo (un pretesto) per legare a catenella un’opera di cuore e coraggiosa, giorni di vita vera, che si svelano con empatia per sottolineare una parola comune di tre sillabe, di cui, forse abbiamo perso il senso: LI- BER-TA’.
“Era stato così, tenendosi forte a quella manina a cui chiedere e dare all’improvviso un grande coraggio, che aveva visto. Un mare marrone che puzzava di nafta e di carogne”.
Legami d'amore
Maria Rosa Nuvoletta
Fannucci Editore

venerdì 16 aprile 2010

SUTTREE di Cormac McCarthy, recensione


“Non camminerà altra vita all’infuori di te. “ Tu solo, ti aggirerai fra i nostri sedimenti resi roccia.“Un carnevale di forme eretto sulla piana del fiume che ha prosciugato la linea della terra in un raggio di miglia e miglia…un mondo al di là di ogni immaginazione, malevolo e tattile e dissociato” aspetta te, unica anima viva.
Suttree di Cormac McCarthy è un’opera monumentale, assoluta, la cui essenza si può percepire solo a piccoli sunti, leggendo e rileggendo in momenti diversi. Volteggiano fra le pagine, magistralmente tradotte da Maurizia Balmelli, gli spiriti immortali e laboriosi dell’Arte, misteri espressi da una distanza infinita. Distribuito da noi trent'anni dopo la sua prima pubblicazione, è il Libro dell’Uomo per gli uomini della nuova era geologica: il Topoico o lo Schifario
Protagonista, fra una fitta schiera di diseredati, è Cornelius “Buddy” Suttree, il pescatore, che a bordo dello “schifo” avanza (eppure sembra immobile) sulle acque limacciose del Tennessee, un “relitto biblico e senza proposito di tornare da dove era venuto ne’di raccontare quel che aveva visto”. Io sono, io sono il prodotto di stirpi precedenti “vecchi antenati teutonici con gli occhi accesi dal bagliore visionario di una avidità sfrenata”. Fuggiaschi di ogni risma, stranieri di ogni contrada. Folli, deformi e deformatori, gli artefici malevoli di una nuova Natura.
Una cartografia che si svolge lenta come il silenzio, in pagine fitte di pensieri, immagini riflessioni, rimandi, per svelare agli “occhi bendati della notte” una semplice verità: ai margini sopravvivono solo le forme più primitive, che scavano le acque nere e profonde alla ricerca di cibo e riparo, predando e nutrendosi di organismi morti. Trilobiti paleozoici.
“Nell’ultima lettera mio padre diceva che il mondo è guidato da coloro che sono disposti ad assumersi la responsabilità della guida. Se è la vita che ti sembra di perderti posso dirti io dove trovarla. Nei tribunali, negli affari, al governo. Nelle strade non succede niente. Niente altro che una pantomima composta da impotenti e casi umani.”
Harrogate, la proiezione dell’uomo “tattile” è il personaggio, di una “serenità quasi demente” che un felice tratteggio di umorismo apocalittico, a tratti fragoroso, disorienta e sveglia lo stupore del lettore: il “chiavatore” di cocomeri. L’uomo “topo di città”, reinventore della geometria piana, che s’incunea come vena minerale nei fondi del sottosuolo.
“Mi sa che devo farmi aiutare.
Questo è sicuro.”
Non ancora simile ai suoi simili, Bud setaccia il fiume in cerca di antidoti; pesci gatto che rivende o baratta per la sua sopravvivenza temporanea. Giorni necessari allo smaltimento del dolore, raccolto tutto attorno in aree sparse della vita e dissociate dai contesti naturali. “Nelle tenebre del suo cuore giganteggiava un io inferiore sopra ampolle di veleno per topi, un vecchio libro di magia tra le mani, ritorsioni su larga scala in arrivo contro i mali del mondo”.
Il punto di rottura costa fatica, la dipendenza assale e colpisce con una sindrome di pianti e svenimenti; il paradiso montano di Gatlinburg, splende, per Suttree di troppa luce. “si sedette da solo nella sua coperta sulla panca di una sala d’attesa vuota, sgranocchiando la barretta come un topolino e leggendo una copia rilegata in finta pelle nera del Libro di Mormon che aveva trovato su un espositore. Il cioccolato riuscì a mandarlo giù, ma le parole del libro misteriosamente scorrevano via dalla pagina e pensò che non aveva mai letto storia più strana.”
Knoxville non è la città della gioia. Nelle baracche organizzate di letti e fornelli si muove la bolgia degli afflitti, fra rottami e carcasse d’ogni tipo, coriacei ad ogni dolore; umani nella domanda di un conforto: il prezzo di un caffé per un inverno di ghiaccio.

domenica 28 marzo 2010

LE MILLE FACCE DELLA MORTE recensione


“Anonimo come Fregoli. Normale, come Fregoli. Un altro artista, insomma, che aveva promosso a genio la qualità di essere nessuno”.
Haute couture. Questo nuovo libro di Enrico Gregori è un abito su misura, confezionato in sartoria da mani esperte, che tagliano per dare forma e cuciono punti invisibili onorando la stoffa a lunga vita. E’ un abito maschile da Uomo, per cerimoniare Le mille facce della morte a Roma, che specularmente si legge Amor. Le mille morti dell’amore e dei sensi, la vista, l’olfatto, l’udito, il gusto e il tatto, infettati dalle cause di ogni disastro, di ogni dolore, di ogni pena: la Pace che si fa con i cannoni.
Siamo nel 1920, il terribile conflitto che “ ha visto in campo sessantacinque milioni di soldati è ormai alle spalle…chi ha vinto e chi ha perso annaspa nella medesima spirale di congiuntura” uno stato di prostrazione che impedisce di compiere azioni determinate e determinanti, tranne i folli: Bilong, l’orco bruto e il ”mito insuperabile”. Matti che escono improvvisi dal mazzo, come la vita, provocando quella “mutazione massiccia che combina tutto radicalmente e per sempre”. Loro, sono le pagine aperte e chiuse del libro; gli altri, realmente esistiti oppure no, il prefetto Vincenzo Frani, l’ambasciatore George Buchanan, il marchese Patrizi, Cornelius Clannad e lo stesso investigatore Gornick, sono figure di contorno, funzionari del rito.
La follia dell’orco si nutre di annientamento. Tesi da distruggere con una fisiognomonia cruenta.
L’altra, di assenza. Esercizio, esperienza oltre il limite dei sensi.
Una scrittura “empatica” sobria e sicura che evoca luoghi di una Roma Sparita, la stazione Termini “deserta: niente servizi, niente inservienti”; il Sammalo di Castel Sant’Angelo “pozzetti nei quali il condannato veniva calato dall’alto, senza speranza di rivedere mai la luce”…il più temuto e lugubre degli sfiatatoi. Tuum est. Ponte Sisto, la chiesa di Sant’ Alessio, via della Lungara, Campo de’ Fiori. Il gioco popolare (di vino e di coltelli) del sor Sordi che brinda alla nascita del figlio Alberto; il mercato di frutta e pesce, il bordello, la fumeria, le nuove professioni della macchina fotografica. Girolimoni.
Jeffrey Gornick, baronetto per grazia del re, in questo mondo non suo non indaga, ma si presta con intuito ed esperienza a risolvere il caso. “Allora mi son detto che, se vogliamo tentare di non amalgamare questa nostra indagine ad altre simili, dobbiamo sforzarci di vedere quali sono, se ci sono ovviamente, degli elementi che la rendono unica”.
Roma, che specularmente si legge Amor!


LE MILLE FACCE DELLA MORTE
Enrico Gregori, ed. Historica (2010)
recensione di Miriam Ravasio

martedì 2 marzo 2010

IPAZIA vita e sogni di una scienziata del IV secolo, recensione


IPAZIA, VITA E SOGNI DI UNA SCIENZIATA DEL IV SECOLO
Adriano Petta e Antonino Colavito
ed. La Lepre

Quando la poesia non è compresa, quel che resta è il delirio che il potere cura con ogni mezzo.
“Ipazia non è una donna eccezionale: è qualche altra cosa…appartiene ad un’altra dimensione, a uno di quei mondi infiniti di cui parla Democrito…Ipazia è un piccolo Sole” mai spento. Per migliaia d’anni, pur nell’oscurità dei tempi, le sue ricerche sulla Luce hanno continuato a risplendere nella mente degli uomini di ingegno, scienziati, matematici,filosofi; una staffetta di piccoli Lumi per riportare la ricerca nella giusta direzione, l’origine della Luce e (di conseguenza) dei colori . Goethe codificò quel lavoro millenario in un trattato; perché l’uomo impiegò così tanto tempo a scoprire l’origine della Luce e (conseguentemente) la natura dei colori? Perché dalla distruzione di Ipazia tutto si arrestò; le intuizioni furono proibite, le biblioteche distrutte, i roghi furono accesi e lei, piccola e fragile testimone dell’antico sapere di Archimede, Aristarco, Euclide e Tolomeo, fu fatta a pezzi, nella pubblica piazza, dai monaci parabolani.
Astronoma, matematica, filosofa, antesignana della scienza sperimentale, studiò e realizzò l’astrolabio, l’idroscopio e l’aerometro. Figlia di Teone, fu testimone ed erede della Scuola Alessandrina, visse nel periodo storico di Ambrogio, Teodosio, Crisostomo, Agostino e Cirillo; protagonista, alla pari, degli eventi che segnarono, per i secoli futuri la storia del mondo: fine del paganesimo, trionfo del cristianesimo e ascesa al potere della Chiesa Cattolica.
Il libro, che vanta una prefazione di Margherita Hack, racconta la sua storia; Adriano Petta ricostruisce fedelmente fatti, dialoghi e carteggi; Antonino Colavito trasfigura in lirica pensieri , sentimenti, riflessioni e l’assoluto amore per la scienza della giovane martire. Azioni d’arte, di storia e di poesia sulla caparbia generosità della Ricerca, che la figura di Ipazia universalmente esprime; l’intuizione e l’idea contrapposte alla “corrente” visione delle cose, del mondo. Guerre perse, nel relativo presente, vittoriose poi nella contemporaneità dei posteri.
“Che cos’è il pensare? Il pensare è la molteplicità delle sensazioni in un rapporto continuo con l’universo soggetto ai nostri sensi” e in un raggio di Luce è nascosta la creazione, il Mistero della vita. “Se questo segreto lo metti a disposizione della gente, apparterrà a tutti (…) voi scienziati siete creature ingenue…ma pericolose”.
Il patto siglato fra l’Impero Romano ormai morente e i padri della Chiesa prevedeva e pretendeva la distruzione del vecchio, l’antico sapere ellenico; tradizione, scienza, filosofia, arte. Lingue di fuoco per un nuovo mondo. In vent’anni o poco più tutto è fatto, resettato, tranne ad Alessandria d’Egitto. Ipazia è avvertita :sei giovane, sei donna, sei empia!
“Uno stormo di corvi abbandona il tiglio dinanzi a noi, e vola verso il Cesareo: una volta oltrepassato il Teatro, assume la forma di un serpente”.
L’otto marzo del 415 d.c. fu “uccisa” nella pubblica piazza.
Miriam Ravasio

sabato 23 gennaio 2010

SCALE DI MEMORIA



“A Mauthausen c’era una scala scolpita nella roccia, con 176 scalini, ruvidi e appuntiti.
Mi ricorderò sempre della giornata del 21 agosto ’44, giornata nella quale io, con altri 550 compagni dovetti fare quella scala, e purtroppo 175 di noi ci lasciarono la vita.
Uno alla volta venimmo fatti passare, con un sacco sulla spalla del peso di circa 30 o 40 chili. Ad ogni cinque vi era un tedesco delle S.S. armato di fucile con baionetta innestata, ed un altro al suo fianco con lo scudiscio in mano. Inesorabilmente egli batteva il “paziente” che faceva la mossa di fermarsi durante l’ascesa della martirizzante scala.
Io riuscii ad arrivare fino in cima, dato che avevo un fisico ancora abbastanza robusto; un mio compagno, che mi era come un fratello Gandini Emilio di Lecco ci riuscì a stento, ma la maggior parte degli uomini anziani, sulla cinquantina e sulla sessantina, non ce la facevano.
Questi poveretti, già malconci per le percosse ricevute venivano spinti con la punta delle baionette sull’orlo della scala e fatti precipitare nel burrone sottostante.
La morte di quei poveretti e le grida di dolore degli agonizzanti erano uno spettacolo divertente per i crudeli e famigerati ufficiali delle S.S., comandanti e amministratori del terribile campo di Mauthausen.”
Dal diario di Lino Frigerio, detto “Gabbia”
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Scendo la Scala della Morte, che conduceva alla cava di pietra di Mauthausen. Su questi 186 alti gradini gli schiavi portavano macigni, cadevano per la fatica o perché le SS li facevano inciampare e rotolare sotto i sassi, venivano abbattuti a bastonate o a fucilate. I gradini sono blocchi ineguali e impervi, il sole scotta; il massacro è ancora vicino, vengono in mente divinità arcaiche avide di sacrifici umani, le piramidi di Teotihuancàn e idoli aztechi (…) Su questi scalini, il singolo si sente uno dei grandi numeri macinati dallo Spirito del Mondo che evidentemente dà segni di squilibrio mentale, uno di quei numeri di matricola che l’ufficio competente del lager incideva sul braccio dei detenuti.
(Danubio, Claudio Magris, ed. Garzanti)
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Buchenwald, Auschwitz, Mauthausen. Le testimonianze provenienti da quei luoghi sono rivelazioni immani anche per chi in un lager ci la abitato. L’immagine della gradinata nella cava di Mauthausen, per esempio. Centottantasei gradini. Dieci pianerottoli. I corpi zebrati dovevano inerpicarsi sei volte al giorno fino in cima alla gradinata, con una pesante pietra sulle spalle. E quella pietra doveva essere pesante avvero, dato che lassù uno stretto sentiero correva lungo l’orlo di un precipizio, e lì stava un kapò che buttava giù con uno spintone chi a suo giudizio aveva una pietra troppo piccola sulle spalle. Quello strapiombo veniva nominato «la parete dei paracadutisti». Ma si poteva cadere già sulla gradinata, dal momento che i corpi erano magri e le pietre grandi, e i gradini erano costituiti da sassi diseguali e posti di traverso. Quando poi alle guardie saltava il ghiribizzo, respingevano indietro, dalla cima della gradinata, quelli che si erano trascinati ansimando fin lassù, facendoli rovinare su chi stava sopravvenendo, e così a rotolare giù era un misto di pietre bianche e masse striate.
( Necropoli di Boris Pahor ed. Fazi )