giovedì 12 novembre 2009

L'UOMO NON STA FERMO


La prima vera mostra dopo “Gli occhi e il cuore”, una personale di soli disegni esposti alla galleria La Nassa a Lecco nel 2000.
Da allora, ho riformulato la mia espressività in un nuovo codice, un felice incontro con la pittura; quella vera, materica, sensuale e vivida come un concerto rock.(vedi: L’impulso ribelle diventa un grido). Un intervallo di tappa, necessario come la sosta del viandante che dubbioso osserva i ponti: su quale il Presente transiterà verso l’Avvenire?
L’Uomo non sta fermo (opere dal 2003 al 2009) è un tema che non pone domande a cui nessuno saprebbe rispondere, al contrario offre azioni che, seppur mosse in un ambito ristretto, sono, come potrebbero esserlo per ognuno di noi, universali. Potenza della rete e delle nuove dimensioni comunicative: Circe of hands, è il titolo che apre il ciclo delle formelle polimateriche. Cerchi di mani, cerchi danzanti con capienze immense e aperte allo spazio, che l’accelerazione dei tempi, riduce in particelle infinitesimali. Polveri lievi che scendono a coprire ogni superficie, contaminandone i tessuti e creandone di nuovi. E’ il Fato contemporaneo che promuove i contatti e feconda le inclinazioni; insondabile perché immenso, presente e ineludibile perché nella rete viviamo, con partecipazione ed emozioni, il nostro presente. “È il modo di esprimersi dell’umanità, che si rinnova totalmente, è il pensiero umano che depone una forma e ne riveste un’altra, è il completo e definitivo cambiamento di pelle di quel serpente simbolico, che, da Adamo in poi, rappresenta l’intelligenza” Sono parole di Victor Hugo sull’invenzione della stampa che sostituì nel cuore degli uomini, il primo e importante alfabeto: l’architettura, quel codice di forme durature a cui per millenni fu affidato l’umano pensiero.
Archi, capitelli, facciate, assetti urbani, agglomerati e prospettive sono i soggetti dei disegni, quadri e formelle.
L’agire dell’uomo, nel tempo compreso fra l’ideogramma di Lascaux, l’Omino incerto che con la sua presenza chiude il trionfo animale, e il Trash People, Omoni di spazzatura, dell’artista berlinese Ha Schult, installati in giro per il mondo. In un percorso che comprende tele, tavolette polimateriche, in rilievo e dipinte ad olio, grandi “gessi” monocromatici e l’installazione di una scultura dallo spessore minimo “proprio come noi: donne e uomini del nostro tempo”.

sabato 7 novembre 2009

LA STRADA di Cormac McCarthy, recensione


...Inizierò con l’affermare che il primo senso investito dalla lettura è quello dell’olfatto. Sin dalle prime righe si percepisce l’odore, la puzza dei corpi non lavati, del sudore, del sangue rappreso, dei capelli unti e sporchi; l’odore acre del fuoco e in generale della mancanza d’acqua. Penso alle nostre abluzioni, alle nostre docce, all’uso indiscriminato e sprecone dell’elemento, la cui assenza, in questa visione apocalittica si manifesta. L’inizio, un incubo da sogno cupo, ci rimanda a Lascaux all’ideogramma stilizzato di un essere, che celebra la fine del trionfo animale, dei cavalli e dei bufali, imponendo la sua presenza di Uomo nella Natura. Cormac Mc Carthy ci disegna un uomo solo, che in una grotta scura maleodorante osserva un lago nero e fetido, abitato da presenze inquietanti.
L’uomo e il figlio, “l’uno e il mondo dell’altro”; l’antico mondo e la speranza forte e tenera che tutto, forse, alla fine può avere un senso, o ancora una possibilità. L’uomo è “papà” solo per il figlio e, a lui solo a lui, non a noi lettori, disperatamente, promette un dono, una certezza che si può raggiungere solo dolorosamente, attraverso il ripercorrere la strada delle “allucinate litanie”.
Le incredibili organizzazioni del male che l’uomo si è dato nel corso dei secoli nel nome, e noi lo sappiamo, della fede e del potere. E lo scorrere delle immagini ci riporta ai roghi, vengono in mente Monte Segur, le crocifissioni, gli stermini, le torture, le morti atroci organizzate e pianificate, gli impalati della Drina, la descrizione di Ivo Andric. E’ un susseguirsi di nefandezze viste da due sensibilità, quella dell’uomo e del figlio. “Che differenza c’è fra ciò che non sarà mai e ciò che non è mai stato?” Una diversa percezione del Nulla, un vuoto che l’uomo teme e che invece il figlio dimostra di preferire al ricordo”.
In questo libro si parla di Dio e il dono promesso, che si attua solo dopo la morte, la rinuncia, dell’uomo antico, il padre, è un nuovo pensiero su dio; non una religione, ma un sentimento armonico, materno, forse una riconsiderazione spirituale della Natura.

Non so agli altri lettori, quali immagini abbia evocato la figura del figlio, nella mia mente, precisa e costantemente a fuoco, ho avuto quella di David, il bambino androide di Intelligenze artificiali, di Spielberg. Il bambino non umano, per secoli seduto, nello stesso immutato incanto di stupore, davanti ad un disgregarsi di un immagine “patacca”, fittizia, che lui, con fede umana, riveste di valore e che solo, altre intelligenze artificiali sapranno in qualche modo premiare.
Il Figlio di questo romanzo, è un po’ come David, è un figlio dei tempi, concepito più dalla volontà che dalla naturalità; nel romanzo, la mamma abbandona l’impresa e lui, solo con il padre, sembra rappresentare la speranza, la ragione stessa dell’esistenza del “resto” umano, il padre, che in lui riconosce il suo ultimo atto: l’uomo è responsabile della Vita. Tutta la vita, la propria, quella del figlio, degli animali e del mondo.
La fiducia del figlio, il senso di serenità, il suo abbandonarsi al padre, regalano all’Uomo l’occasione del riscatto della specie. Così mentre immagini orrende, morti e distruzioni, si susseguono e si alternano in un continuo e senza fine succedere, è vivo fra loro, puro e cristallino, il dialogo. L’uomo rassicura il piccolo, lo protegge, ma non gli nasconde il male; e in questo gioco, che è lezione, il piccolo conquista una sua, anche se acerba, maturazione, che alla fine del viaggio si manifesta con una diversa volontà. Sarà solo allora che l’Uomo si ritrae, consapevole d’essere parte stessa, del “freddo glaucoma” di cenere e di morte che copre il pianeta e la vita tutta. Forse, un’autocritica dell’autore, uomo del “mondo morente, ” per la condivisione, o la sottovalutazione o l’indifferenza o il non mai abbastanza dissenso espresso per quel processo d’irrevocabilità, a cui, noi tutti, abbiamo condannato la terra.”
(...)

sabato 17 ottobre 2009

C'E' QUALCOSA DI ANTICO IN OGNI ESSERE UMANO



( L'Omone narratore. Scultura di spessore minimo in carta, colla, resina e colori acrilici)


“ Anime, piante, e foglie secche…”

C’è qualcosa di antico in ogni essere umano. Che viene da lontano, chissà dove. Le cui origini sono stesse a noi sconosciute.
Nulla di materiale.
E’ uno scirocco, un vento, un anelito sottile e caldo.
Ogni occhio ha i suoi simboli affezionati; ogni cuore i suoi battiti. Ogni sentimento il suo calore.
Ma la natura distorta di alcuni vuole imporre i suoi : freddi, aggressivi, imponenti.
Violentando così l’etereo e il mistico ch’è in ogni uomo.
Io non mi farò violentare. Non mi piegherò a questo sopruso, a questo furto.
L’anima ha radici antiche che guardano lontano.
Io ne sono ignara, come voi. Ma la sento.
E sento che siamo piante in balìa del vento.
No, non un scirocco; non illudetevi…
I vostri non sono simboli, ma “totem” deviati. La vostra non è mistica, ma dogmatica religione.
La vostra non è anima, ma paura di conoscervi.
C’è qualcosa di antico in ogni essere umano, che viene da lontano e guarda oltre.
Io sono qui; nelle mie radici. In balìa del vostro vento.
Ma non cedo.
Rido, penso, qualche volta piango.
Ma il vostro non è movimento.
E vi aspetto lì, alla fine della vostra “corsa”: vuota, isterica, affannosa; che vi tiene vanamente aggrappati a una ringhiera.
Crederete di esser caduti. Stramazzati in nome della vostra bontà : l’ “ingenua buona fede”.

L’anima ha radici antiche che guardano lontano.
Ogni occhio ha i suoi simboli affezionati; ogni cuore i suoi battiti. Ogni sentimento il suo calore.

Piangi fratello, piangi, che ti fa bene…
C’è sempre una mia spalla, ad accogliere i tuoi coltelli affilati.

Gianni Parlato

giovedì 1 ottobre 2009

CENTO PER CENTO, recensione al libro di Sacha Naspini


"Io sono il più grande. L’ho detto prima di sapere di esserlo". Cassius Clay, un mito.
Dino Carrisi invece è un cuore sul muro, un “cento per cento”; perché nella vita grama degli ultimi delle fasce ultime “il trucco era questo: sostituire il buco della fame con un male più grosso […] e a volte viene giù anche un pezzo di calcina”.
La storia ha il ritmo di un incontro da campionato e i colpi sono tutti per il lettore. Decisi, inaspettati fin dalle prime righe: “Mi avevate detto che non avreste portato donne in casa mia”.
Un pugile che sia un pugile vede la vita come un ring e l’intervista che Carrisi concede al giovane e ambizioso giornalista, conta più di un mondiale, attenzione e concentrazione sono al massimo!
Virtuoso e istrionico come Cassius Clay “il più grande” è l’autore, Sacha Naspini, che saltellando agile calibra il tratteggio di un personaggio amabile, integro e dolce. Un Sansone che fa una vita da cani, consapevole e attento a controllare la sua invulnerabilità, quel calcagno che fa capolino fra i capelli. “Come mi capitava a tiro uno specchio mi piazzavo lì davanti, di spalle, tiravo fuori il mio e mi guardavo la pelata […] mi piaceva piacere e piacermi”. Pause di vanità, brevi come il risciacquo delle ferite fra una ripresa e l’altra, per poi scattare in piedi ancora con più forza, cogliere nell’altro (un sé riflesso) la paura, l’esitazione e chiudere la sfida prima dell’abbandono ultimo alla fisica naturale del corpo. E alzare il pugno al limite del branco.
“Scegli me amore mio” .
Il Dino imprigionato, privato dalla forza e dalla fama, non è parente della figura tragica dipinta da Annibale Carracci: un colosso di carne cieca, piegato afflitto e senza volontà. No, il nostro Sansone saluta il mondo e chiude nei pugni gli attimi che solo lui conosce, vive d’intimità che allena con la complicità del tempo: “Ognuno di noi ha il cuore della stessa grandezza del proprio pugno”. Il suo è grande, un cento per cento d’amore, che il lettore scoprirà sotto una gragnola di pugni. “Un godimento della madonna”, credetemi.

Miriam Ravasio

martedì 15 settembre 2009

IL TERREMOTO E' UN MITO, recensione al libro L'infanzia è un terremoto di Carola Susani


“Il terremoto è un mito, la vita di prima è preistoria” L’infanzia è un terremoto di Carola Susani è un testo difficile da recensire, perché è un insieme di cose diverse: biografia, ricerca, analisi, storia , politica ed anche un diario di viaggio. I luoghi sono quelli privati della memoria e quelli pubblici del disastroso terremoto della Valle del Belice.
Scritto più per capire che per dire, l’autrice ritorna ai suoi primi anni, quando i genitori, due architetti veneti, si trasferirono nella baraccopoli del Belice, impegnati attivamente nel progetto di Danilo Dolci e Lorenzo Barbera. Lo stile ricorda Savinio, perché è il lettore, che con i suoi strumenti di conoscenza, ricompone l’esperienza, colmando lo spazio temporale che dista dai fatti, 1968 -1972 e dalla loro rivisitazione, oggi. Sta lì, nella nostra memoria il senso del vuoto, che muove quel bisogno di verifica che, a molti anni di distanza, spinge l’autrice al “ritorno”; ad intraprendere il viaggio, in compagnia del marito e del figlio. Lei, ora mamma , ricorda i giochi con i bimbi siciliani, i pasti della mensa comune e i discorsi dei grandi, che immaginiamo estenuanti e infiniti. Perché lì, si sperimentava una nuova idea di città, ideale e utopica, che voleva eliminare il centro e la periferia, ricchezza e povertà, azzerando il passato, già azzerato fisicamente dalla natura.
Dalle rovine di Montevago, e poi da Gibellina e dal Cretto di Burri, si avvia il racconto di Carola Susani, con una riflessione sull’arte, sulle idee, sul delirio entusiastico dell’utopia. Le “rovine” schiacciate nella terra dal peso immenso dell’opera di Burri, sono descritte da due diversi punti di vista; quello dell’autrice, che nel Cretto riconosce l’intento poetico e quella degli abitanti che al contrario vivono la grande colata bianca come un inganno al ricordo, alla vita stessa che in quel luogo non sarà più, mai più. “ Ho pensato a Gibellina come a un pamphlet dell’antintellettualismo, un Candide, la dimostrazione della pochezza, dell’inanità dell’arte. Che cos’è l’arte? La cacatina di un uccello presuntuoso. Chi presta attenzione all’arte? Nessuno. Perché dovrebbe? Che ragione c’è? Può giusto servire a richiamare turisti e intellettuali, gente che si diletta di cose senza senso, gente senza problemi.”
Gibellina come la coda lunga di Yale? E l’Ises (istituto per lo sviluppo dell’edilizia sociale responsabile della ricostruzione) attrattore dei sogni e delle utopie di un mondo in movimento? Sì, fu così. “ L’infanzia si diletta di trionfi. E’ vero questa non è tutta l’infanzia, l’infanzia non disdegna la commozione, le tenerezze, l’amore. Però nell’infanzia c’è anche questa fascinazione per le rovine”. A quale infanzia si riferisce Carola? A quella dei suoi quattro, cinque, sei anni o a quella delle idee assolute, che lei bimba, ha lucidamente riconosciuto nei “nostri adulti”che sacrificando la creatività dell’arte all’ideologia originarono solo teoria e poi esperienza spericolata: il terremoto è un mito, la vita di prima è preistoria.
Nomi noti, della politica, ma non solo, di ieri e di oggi, si intrecciano in relazioni complesse: un giovane Don Rigodi, il colonnello Dalla Chiesa, Bruno Zevi e Ulriche Meinhoff. Il sessantotto e il suo mito stanno lì, sorprendentemente, nella Valle del Belice, nel racconto e nella ricostruzione di quella esperienza; nei frammenti , diversi, esposti come in una mostra a tema, che potrebbe anche essere itinerante perché il pensiero che animava la Comune fu, appunto, comune a molti e, nella sua versione architettonica lo fu per molto tempo ancora.
Miriam Ravasio

mercoledì 19 agosto 2009

TOUCH AND SPLAT, recensione



TOUCH AND SPLAT di Alessandro Cascio

Quando a Parigi furono abbattuti i padiglioni Les Halles, nel cuore della città si creò una voragine cruda e irreale, un’immagine spietata, un vuoto da vedere, che Marco Ferreri tradusse in metafora: Non toccare la donna bianca (1974), un atipico e spassoso western in cui alla fine muoiono quasi tutti. Touch and Splat di Alessandro Cascio sembra quasi un omaggio a quel film, scritto 35 anni dopo, sulle battute dello stesso ritmo ma mixato HI; il vuoto ora si tocca, è un effetto speciale, materia che occupa il tempo e decide le azioni del nostro trastullo: PIRIPERO, dice la bambolina stupita, PIRIPERO, sospira per l’ultima volta l’ammazzato.
Touch and Splat è un gioco, un “vuoto” in scatola con pedine che si muovono sui cartonati pop-up del Golden Paradise: uno studio cinematografico ormai in disuso. Una cisterna di legno segna il confine fra i Rojo e lo sceriffo John Baxster, le stalle poste agli angoli, chiudono lo spazio. La simulazione, libera la rabbia statica in dinamica, BUM tutti sparano; BUM BUM tutti sono bersagli; BUM BUM BUM e chi vince fa SBAM, come una porta che si chiude per sempre.
La scrittura di Cascio è una giocoleria di parole e immagini, parodia di una satira che fa ridere per davvero“Fatti beccare quattro volte e sei fuori. Ti tocca la bandana bianca” non diventi ricco e i pallini ti hanno fatto giallo come Homer Simpson.
“Il risveglio è il momento in cui tutto cambia, in cui vi accorgerete di aver smesso di crescere e di aver cominciato a morire.” A metà libro, quando le pedine hanno già preso il loro posto, appare lui, l’icona facebook senza volto, l’ideatore di EIR (Experiment of Idrofoby and Rage-regression), il dottor Rupert Kensingon, cervellotico, fatuo, criminale. Uno Stranamore da talk show che sovrasta, con la sua psicologia, sgangherata e incauta, l’estinzione del senso. A fare gli indiani, sconfitti, e confinati nelle riserve, stanno i generi, maschile e femminile; universi distanti e diversi, sempre più scorretti, mai uguali. “Nella mente di Jane c’era un meraviglioso passato da benefattrice, in quella di Antonio un mucchio di gente odiosa che non avrebbe neanche saputo descrivere”.
Norton, Vincent, Carlton, Wanda, Sally, Manuela, Tex e Barbi : impossibile giocare a Cow Boy senza spararsi per davvero!
Le immagini rendono credibile il gioco e il libro si legge ad alta velocità, si consuma come un prodotto dei nostri tempi, una lattina Campbells’, una puntata di Happy Days o di mi chiamo Mork e vengo da Ork. Un prodotto da comunione consumistica, più se ne parla più piace: ma i lettori devono stare attenti, rilassati, come ammonisce e raccomanda Alessandro Cascio all’inizio e alla fine del libro “quella rabbia non porterà nulla di buono”. Jane non è più Barbarella ma una Cinderella (man-girl) senza una ragione per lottare.
Non toccare la bambolina bianca. PIRIPERO, PIRIPERO.
Miriam Ravasio

domenica 16 agosto 2009

Shomèr ma mi-llailah? di Francesco Guccini. Contaminazioni








Shomèr ma mi-llailah?

La notte è quieta senza rumore, c'è solo il suono che fa il silenzio
e l'aria calda porta il sapore di stelle e assenzio.
Le dita sfiorano le pietre calme, calde di un sole memoria o mito,
il buio ha preso con sé le palme, sembra che il giorno non sia esistito.
lo, la vedetta, l'illuminato, guardiano eterno di non so cosa,
cerco innocente o perché ho peccato la luna ombrosa.
E aspetto immobile che si spanda l'onda di tuono che seguirà
al lampo secco di una domanda, la voce d'uomo che chiederà:

"Shomèr ma mi-llailah?
Shomèr ma mi-lell?
Shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell?
Shomèr ma mi-llailah?
Shomèr ma mi-lell?
Shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell?
Shomèr ma mi-llailah?
Shomèr ma mi-lell?
Shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell?"

Sono da secoli, o da un momento fermo in un vuoto in cui tutto tace,
non so più dire da quanto sento angoscia o pace.
Coi sensi tesi fuori dal tempo, fuori dal mondo sto ad aspettare
che in un sussurro di voci o vento qualcuno venga per domandare.
E li avverto, radi come le dita, ma sento voci, sento un brusio
e sento d'essere l'infinita eco di Dio.
E dopo, innumeri come sabbia, ansiosa e anonima oscurità
ma voce sola di fede o rabbia, notturno grido che chiederà:

"Shomèr ma mi-llailah..."

"La notte, udite, sta per finire, ma il giorno ancora non è arrivato,
sembra che il tempo nel suo fluire resti inchiodato.
Ma io veglio sempre, perciò insistete, voi lo potete: ridomandate!
Tornate ancora se lo volete, non vi stancate!"
Cadranno i secoli, gli dei e le dee, cadranno torri, cadranno regni
e resteranno di uomini e idee, polvere e segni.
Ma ora capisco il mio non capire, che una risposta non ci sarà,
che la risposta sull'avvenire è in una voce che chiederà:

"Shomèr ma mi-llailah..."

sabato 15 agosto 2009

DOPPIO SQUEEZE , recensione



Doppio sqeeze di Enrico Gregori

Intelligenza e Amore, come Forza e Onore.
Così, come Massimo Decimo, il Gladiatore, incitava i legionari alla battaglia, perché “ciò che fate in vita riecheggia nell’eternità”, Enrico Gregori, romano e cronista de’ Roma, lancia, intenzionalmente oppure no, il suo messaggio ai lettori: intelligenza e amore, le carte vincenti del Doppio Squeeze, altrimenti si può solo soccombere. La difficoltà è data dei sensi, che disturbati e indeboliti dal “carnascialesco” quotidiano ci predispongono all’immersione delle (nostre) inclinazioni nelle correnti calde e frequentate. Il personaggio di Mirko ne è l’emblema; perché Mirko chiede ma non ascolta, vede ma non osserva, ambisce ma non ricerca, sceglie ma non distingue. Lui non fa paura, da lui non si scappa, con lui si convive ma su di lui non si può contare. Mirko non pratica ne’ Intelligenza, ne’ Amore. E’ il vicino della porta accanto, quella brava persona, l’omicida potenziale di una ordinaria follia quotidiana. Altra cosa sono Sniper e Hunter, soprattutto, uomini che hanno saputo “trasformare in mestiere” la loro totale insensibilità verso il dolore degli altri: killer, sicari che uccidono su commissione. Assassini, che l’abitudine ad elidere, come in un calcolo, ciò che ci corrisponde, ispirano nel lettori partecipazione e simpatia. E in questo trovare umano là dove ogni spirito è morto, è una tremenda ironia, l’ultimo sghignazzo dell’incubo di dio: l’uomo. “Se l’uomo ride, se è l’unico nel regno animale a esibire questa atroce deformazione facciale, è anche perché è l’unico che, superando l’egoismo della natura animale, abbia raggiunto lo stadio infernale e supremo della crudeltà” (Houellebecq).
In molti hanno sostenuto che Doppio Squeeze si legge facilmente; la scrittura parallela, tipica di Gregori, qui, gode di raccordi e che affascinandoci con la trama, rendono la lettura facile e chi legge vuol sapere se Laura, se Hunter, se Andrea…
L’assenza di metafore conclamate, meno richiami e riferimenti, i pochi protagonisti così fortemente caratterizzati, non devono trarci in inganno. Gregori sottopone ai lettori il “caso”, che come l’ispettore Ferri , ad un certo punto hanno la medesima sensazione “quella di avere un puzzle da diecimila pezzi al quale qualche figlio di troia ha sostituito alcune tesserine buone con altre di un puzzle diverso. Tutto studiato appositamente per sfinirci senza arrivare a nulla”
Invece c’è Andrea il funambolo “che non tromba” . Lui, a condurci al traguardo, la fine vittoriosa del gioco, Lui che si è esibito per dimostrare che il “riso” come il piacere nascono dal cuore.
Enrico Gregori, “unico” al di là di ogni genere.
Miriam Ravasio


Note biografiche dell’autore:
Enrico Gregori è del 1954. Inizia l’attività giornalistica nel 1975 come collaboratore di una rivista musicale specializzata nel Rock. Grazie a questo lavoro gira molto per l’Europa e per l’Italia. Conosce ed intervista alcuni personaggi noti e meno noti di quel mondo, come i Queen,Patti Smith e Bruce Springsteen. La professione “vera” la inizia nel 1980 a Il Tempo e poi, nel 1989, passa a Il Messaggero. Il suo impegno è stato sempre la cronaca nera. Da cronista “sbattuto” sui marciapiedi è diventato il responsabile della “nera” de Il Messaggero. Gli anni di piombo, la banda della Magliana e tutto ciò che, in particolare a Roma, ha visto la civile convivenza lacerata dalla violenza, dal disagio, dal delitto, lo ha trovato, in strada, sui luoghi degli avvenimenti, attento osservatore per conto dei lettori del suo giornale. Oggi dice che “coordina” il lavoro altrui, anche se ogni tanto ed in casi molto specifici, gli viene chiesto di scrivere. I suoi interessi personali sono rivolti alla letteratura “noir” di qualità, alla musica Rock, e all’enologia.

DIARIO DI SCUOLA, recensione seconda parte



La somaraggine, è lo stato di solitudine e impotenza che pervade il somaro; un insieme di sentimenti e reazioni che cristallizzano l’inettitudine in odio, e in lotta aperta contro “il mostro scuola che vuole mangiarmi il cuore”. La somaraggine è anche un rapporto che muta, che vive di condizioni e nuove difficoltà, Pennac ricostruisce, per noi, attraverso i suoi ricordi di allievo e poi di docente, la nuova condizione del somaro. Dal vendicatore solitario, un po’ alla Gian Burrasca, al “renitente” contemporaneo che non è più bambino, nemmeno adolescente ma ha gli aspetti di una nuova categoria: è un consumatore, un bambino cliente. Mentre il somaro di ieri provava una gioia cupa nel sentirsi incomprensibile ai privilegiati del potere, lasciando comunque aperto uno spiraglio al recupero; oggi, il somaro-cliente, forte della sua maturità commerciale si preclude ad ogni intervento. Perché dovrebbe abbandonare questa sua “veste” per la posizione dell’allievo obbediente, che lui reputa infantilizzante? “per quanto somaro sia in classe, non si sente forse padrone dell’universo quando, chiuso in camera sua, è seduta davanti alla sua consolle?”

L’amore è liberare il somaro dal suo pensiero magico, che come in una fiaba lo inchioda in un eterno presente. E’ l’amore degli insegnanti che non si lasciano ingannare dalle ammissioni d’ignoranza. Diario di scuola si conclude con un dialogo filosofico fra Daniel Pennac, docente e scrittore di successo, e Daniel Pennacchioni, somaro. Sono domande e risposte sul Sapere e l’Ignoranza; il Sapere comprende l’Ignoranza o ne ha già elaborato il lutto? “Lo studente che va male, non ha mai la sensazione di essere ignorante. Io non mi trovavo ignorante. Io mi trovavo coglione” Pennacchioni risponde con sicurezza all’incalzare delle domande, rifiutando le risposte che lo scrittore suggerisce. Nessuna empatia e nemmeno comprensione, nemmeno i metodi, nemmeno la psicologia; l’ignorante chiede al sapiente, che sia inclusa fra i saperi anche quello dell’ignoranza; che sia quella la base per organizzare il lavoro di insegnare ad impegnarsi. L’ex somaro avrebbe la risposta che sta tutta in una parola. “Una parola che non puoi assolutamente pronunciare in una scuola, in un liceo, in una università, o in tutto ciò che le assomiglia…se tiri fuori questa parola parlando di istruzione ti linciano.”
Puntini e puntini di sospensione per l’ultima parola … “L’amore.”

Miriam Ravasio

DIARIO DI SCUOLA, recensione



Diario di scuola di Daniel Pennac (prima parte)

Canto della somaraggine o della sofferenza condivisa del somaro, dei genitori e degli insegnanti, quella “sofferenza di non capire e i suoi danni collaterali”. Pagine vibranti di amore dolce e furioso per gli esclusi, che Pennac definisce i “passionari del fallimento” e per gli insegnanti “salvatori”, quelli che non mollano mai, artisti nella trasmissione della loro materia. “Nessuno è più pronto a cazziarti di un professore insoddisfatto di sé stesso”, ma “è sufficiente un professore - uno solo! - per salvarci da noi stessi e farci dimenticare tutti gli altri”.
Una magistrale lezione pedagogica, divisa in parti che voglio riassumere così: il somaro, la somaraggine, l’amore. Pagina dopo pagina il lettore ripercorre tutte le tappe di Pennac, Daniel Pennacchioni, bambino che andava male a scuola “non capivo, ero più indietro del cane di casa”. Testimonianze, analisi, riflessioni e prese di posizione nette e anche provocatorie che non mancheranno di sollevare polemiche: un testo dirompente, da leggere e studiare : Un testo sull’organizzazione del sistema scolastico francese, dalla sua istituzione ad oggi. Dallo “zio Jules”, Jules Ferry che assicurò l’istruzione pubblica obbligatoria, al “bambino cliente” e alla sua “Nonnaccia Marketing”.
E’ quasi impossibile, anche con la disamina più attenta, comprendere i temi del libro, perché Pennac ci offre il cuore, la sua professionalità e lo spirito critico dello scrittore, attento al mutare delle abitudini e delle classi sociali.

Il somaro di Pennac, è un disadattato senza fondamento storico, senza ragione sociologica, perché lui figlio di laureati era somaro come altri “un archetipo senza unità di misura”. Un escluso, elemento di disturbo per l’istituzione scolastica e incompreso a casa. Al punto che la madre, nell’epilogo, messo ad introduzione del racconto, non gli riconosce nemmeno il successo: Il mio avvenire le parve subito talmente compromesso che non è mai stata davvero sicura del mio presente. Perché il somaro si racconta ininterrottamente la sua somaraggine: faccio schifo, non ce la farò mai. Per loro, la scuola è un club di cui si vietano, da soli, l’accesso. Giorni e ore di scuola e di fatica per comprendere quelle parole, così facili per gli altri, e che lui ripeteva instancabilmente, come bocconi masticati senza inghiottire fino alla totale decomposizione del sapore e del senso. Sofferenza e comicità, momenti di abbandono e voglia di riscatto, impotenza e compiacimento, perché “il somaro oscilla fra lo scusarsi di essere e il desiderio di esistere nonostante tutto”.

NEVER ALONE , recensione



Never Alone di Sacha Naspini

IO, dio minuscolo e trino solo per il suo tempo, passato presente e futuro, ha padre e madre: Holden l’incerto e Zazie l’insolente, urbanizzati costruttori del XX secolo.
Never Alone nasce così, struttura insolita, inaspettata creatura involontaria, assoluta, determinata e poeticamente grottesca. Una grandiosa costruzione circolare caduta, quasi per dispetto nella piazza dei miracoli della letteratura italiana.
“Con la mente costruisco una bolla intorno a noi” solida come un battistero, abbastanza ampia per comprendere i sempre meno oscuri e sempre più numerosi oggetti del desiderio.
Un fumetto (e se lo diventasse veramente sarebbe meraviglioso) senza illustrazioni, racconta la storia di IO e dei suoi tormentati giorni, spesi fra paura e voglia di crescere: Ruben e Art.
Ogni avvenimento è annunciato, come in un trailer, sul Bus del signor Mills; Caronte metropolitano che scorta gli ignari protagonisti agli sviluppi e agli esiti che il breve viaggio fa solo intravedere o immaginare, i fatti si svolgono a scuola. La resa fra gli universi mondi chiusi nei giochi o davanti ad una consolle, avviene nei tempi liberi degli intervalli e della mensa, dove e quando il potere democratico si offre ad ognuno per la forza che ha. Pur nella tensione e nella drammaticità del racconto, il cinismo è assente, nei Tre non c’è cupezza. IO, Ruben e Art non oscillano fra il bene e il male, somari e ignoranti della differenza, il loro è un dondolio da filastrocca “cosa succede quando un ragazzo diventa uomo”?
IO non è come Patrik L’allievo di Zimmermann, prima vittima e poi mostro consapevole e crudele, ma espressione lovely di un io narrante che con esplosioni di tenerezza (pubblicitaria) chiude, di volta in volta, i tormenti del suo essere soggetto debole. Un po’ Nando, il “ciuccione indifferente” e fratello di Mafalda e un po’ Matteo, l’innamoratissimo bambino di Amore mio infinito, IO, il protagonista soccomberà agli oggetti, al loro imponderabile valore, di cui non riconosce la potenza.
“Superman non può avvicinarsi alla criptonite. Ok, ma pensa se fosse al contrario: Superman si avvicina alla criptonite e le sue forze si moltiplicano a dismisura! Immagina Superman che all’improvviso diventa un Super-Superman, o qualcosa del genere. Capisci che cosa voglio dire?”
La scrittura di Naspini è a tratto continuo, un segno nitido e sicuro, si legge con facilità ed emozione ma attenzione, Never Alone non è un libro facile, non ci sono solo parole che raccontano una storia noir, è altro: un esempio di letteratura che parlando del presente non cede a sociologia e psicologia, discipline preposte ad altri ambiti.
“Art pensa che sono un ritardato, lo so che lo pensa. Art pensa che tra noi due è lui il Capo, quello che ha sale in zucca e tutto il resto. Ma se si allontana da me Art non è niente, un Capo esiste quando c’è qualcuno da comandare a bacchetta. Art sarà anche intelligente e tutto quel che vuole, ma questa cosa non l’ha ancora capita. Io gli voglio bene e non gliela dico. Non mi costa niente fargli credere che comanda lui.”
A chi l’ultima parola? Fate “bolla” e degustate con lentezza.

Miriam Ravasio

TRE CANDELE , recensione





Tre candele di Alessandro Cascio

Svegliati Aurora. Svegliati ora!
Il principe che infiammato d’amore si mette alla prova, non è il protagonista della storia, ma lo stesso autore: Alessandro Cascio.
Come nella fiaba di Perrault, si veda la traduzione di Carlo Collodi, a smuovere le eroiche gesta, non è la ricompensa, il bacio di Aurora e un eterno amore corrisposto, bensì l’idea dell’impresa; vegliare sulla bellezza, che tentata e sfinita dai sistemi del mondo, dormirebbe in eterno.
Alessandro non è un papà, forse , ne’ zio ne’ fratello maggiore, e non è nemmeno un insegnante, eppure l’intento vibrante, del fare pedagogico, si contiene a stento. Un Lucilio cresciuto che non dimentica le parole del maestro: Se mi fosse concessa la saggezza a patto di tenerla nascosta in me, senza comunicarla ad altri, la rifiuterei: nessun bene ci da gioia, senza un compagno.
Intuizione, sensibilità e arguzia per costruire attorno ad Eirhnh, una bambina che sta crescendo, un bosco di parole vive e palpitanti. Il grande gioco delle sorprese, che la vita regala ad ognuno, modulato sul Tre: le dimensioni del mondo visibile. Tre come mente, corpo e spirito che insieme formano l’essere umano.
Mezza Tacca, Due Tacche, Senza Tacca , sono le candele che danzano di notte nella stanza di Eirhnh bambina. Nel sonno ascolta le loro voci , attenta alle storie di esperienza, innocenza e passione, intuendone il pianto, la gioia e l’invidia per quella luce che nel cielo non si consuma, e non ha “fumo a ricordare che non tutti gli sbagli sono maestri”.
Rispettivamente tre sono le figure maschili e femminili che appaiono e scompaiono nel grande gioco dei giorni passati, presenti e ancora da vivere. Combinazioni infinite di paure, volontà, desideri, rancori, rassegnazioni. Situazioni che svelano ad Eirhnh piccole parti di sé; briciole d’infinito amore che poco alla volta si liberano nel suo cuore rimuovendo il dolore dell’Assenza, perché lei è sola, della Morte improvvisa del padre, del Buio dell’eroina.
Crescere è una guerra che va tenacemente combattuta con azioni di pace. L’autore parte da questa considerazione e Tre candele si legge anche come confutazione poetica delle Tre ghinee; scritta con lo stesso impegno militante per le ragazze di oggi.
Un lungo racconto filosofico, per un film d’animazione, dove la realtà si trasfigura per stupire, la fantasia gioca per ammonirci e le circumnavigazioni dell’io sono bandite: occhi aperti al mondo che ci sta attorno. La protezione di Shovinskij, il Talismano di Abihk e la leggerezza di Pretty Boy e Mr Freddy salvano Eirhnh dalla tristezza, sono gli inganni buoni di chi ci ama, concessioni che cambiano con il mutare del tempo e che da grandi, ognuno trova da sé e le carte rimaste sono solo tre scoperte possibilità: dormire, vivere, annullarsi.
La felicità, sta scritto in un foglio d’argilla è saper guardare il mare senza volerlo attraversare; saper guardare il cielo senza volerlo esplorare; saper guardare la luna senza volerla toccare. Conoscere se stessi, conservare lo stupore, promuovere i sogni, perché tutti, ma proprio tutti, possono suonare Bilardère…ma questo è un segreto di Allan Shovinskij.

Miriam Ravasio